
Sotto il segno di Alcova
Fare i conti con la fine ci spaventa come forse nient’altro al mondo. Non sappiamo neppure che cosa ci attende, eppure tremiamo di fronte all'oscurità dell'ignoto. Alcova si innesta proprio qui, sul confine languido delle cose erose dal tempo, con la promessa che qualcosa rimane e che vale la pena essere abitato, ancora, senza timore.
Il progetto, nato dalle menti di Valentina Ciuffi e Joseph Grima, ha inizio nel 2018, precisamente in viale Monza, a Milano, nell’ex laboratorio di panettoni di Giovanni Cova. L’anno successivo, è invece la volta dell’ex fabbrica tessile di via Sassetti ad Isola. Nel 2021 e 2022 si sposta nell’ex ospedale militare nel quartiere Inganni. Nel 2023, il testimone passa all’ex macello di viale Molise. Tutti ex luoghi. Abbandonati e dismessi, che non sono più. Luoghi che Alcova sceglie ogni volta per darsi vita. In questi spazi difficili e meravigliosi, dove la natura è tornata a crescere, Alcova incastona opere di design tra i resti del passato, che le accolgono, custodendole. Alcova non interviene mai, infatti, per cancellare le tracce del tempo passato: abita ciò che resta, dolcemente.
Il risultato è pura bellezza, senza nostalgia né rifiuto.
Alcova si afferma così come luogo in cui il design incontra il tempo, la rovina, il ricordo, concedendo a chi la visita uno spazio intimo, un’alcova, appunto, dove imparare che la fine non è mai la fine, ma che qualcosa resta e può essere ancora.
Dal 2023 Alcova si è spostata ai confini del mondo conosciuto di Milano, nella cittadina di Varedo, dove il tempo sembra scorrere secondo un battito alterno.
Nessuno, prima di Valentina Ciuffi e Joseph Grima, aveva mai osato oltrepassare i limiti geografici della città per il Fuorisalone, e, nonostante qualche naso storto, la scelta è stata riconfermata anche per quest’anno. Dal 7 al 13 aprile Alcova ha abitato, infatti, gli spazi varedesi della ex fabbrica Snia, di Villa Borsani, di Villa Bagatti Valsecchi e delle serre di Pasino. “Four Sites, One Design Path” è il titolo scelto per questa edizione.

Il primo luogo è uno straordinario esempio di reliquia industriale di stampo razionalista risalente agli anni della Prima Guerra Mondiale. Abbandonata da ormai oltre venti anni, vive sul filo del respiro della natura che la avvolge. Tra le rovine del passato glorioso della fabbrica, ha preso vita il progetto di Habitare, collettivo finlandese di designer e aziende emergenti. La mostra “Habitare Materials & Objects” promuove materiali etici e sostenibili, celebrando la circolarità.




Tra gli immensi spazi della villa, Lara Bohinc ha presentato la collezione “Anima”. Ispirata ai sogni e alla natura, la collezione si è incentrata su tre sedute imbottite e rivestite in pura lana d’alpaca firmata Inata, brand tessile peruviano. Accanto ad Anima, Bohinc ha presentato anche tavolini della collezione con Uniqka, che, ispirati alla bellezza degli uccelli, sono stati realizzati con pannelli sovrapposti che richiamano le piume dei volatili. In collaborazione con i maestri italiani del marmo Serafin, Bohinc ha svelato anche “Fallen Empire”, collezione di arredi in marmo che fonde la grandiosità delle rovine antiche con il design contemporaneo.




È tra le mura di Villa Bagatti Valsecchi che il designer Jean-Baptiste Anotin di Waiting For Ideas e il designer Jean-Baptiste Durand si sono incontrati per la prima volta. È così che il minimalismo senza tempo del primo ha incontrato l’esuberanza futurista del secondo.

Nella stessa cornice, Studio Lugo, di base a Istanbul, ha presentato “The Anachron Series”, collezione di Doruk Kubilay. Il nome, da “anacronismo”, invita a riflettere sul senso di atemporalità. La collezione trae ispirazione dal passato agricolo dell’Anatolia, richiamato nell’installazione: aste di legno sospese dal soffitto terminano con campanelli in acciaio che ondeggiano e tintinnano, evocando il movimento delle mandrie nelle antiche praterie.



Erano un tempo di pertinenza della stessa Villa Bagatti Valsecchi le serre di Pasino, oggi scheletro di vetri fratturati, da cui la luce penetra per dar vita alle piante invasive che vi abitano.
Si dice che un tempo le serre abbiano ospitato la più grande coltivazione di orchidee bianche d’Europa. Le orchidee bianche ormai non ci sono più, e di loro è rimasto soltanto il ricordo, l’anima intrappolata nella bioplastica (PLA) terrosa delle sculture di Marcin Rusak. “Ghost Orchid”, appunto. Nella serra, la visione era quasi eterea: un’aria densa avvolgeva di sé chi avesse varcato la soglia, fredda e pungente. La luce penetrava timida e le sculture si ergevano candide e spettrali su una natura viridente e incolta. Le opere di Rusak, fiori di plastica biodegradabile sviluppata in collaborazione con Łukasiewicz IMPi di Toruń, sono destinate a decomporsi, naturalmente e lentamente. Fino a tornare alla terra per poi sciogliervisi. Basterebbe aggiungere una miscela di enzimi e batteri da amido e fondi di caffè per vincere le frontiere del tempo e portare a massima velocità il processo di decomposizione.
Con questa installazione, l’artista e designer polacco, che dei fiori di scarto e della dissoluzione fa il proprio terreno di ricerca, si pone, come gli è consueto, sul confine dell’effimero, manipolandolo.
Nelle serre in rovina, il profumo era quello argilloso della fine. Ne eravamo inebriate, ormai consapevoli che la fine non è mai la fine, e che qualcosa comunque resta che può essere ancora.
Nicole Bellini